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A Si Di Brigànt
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Passator Cortese
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Troll
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Big Guy
Mighty Blow
Really Stupid
Regenerate
Throw Team Mate
Ninco Nanco
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Musolino
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Taglialegna di mestiere, la sua storia inizia il 28 ottobre 1897 quando è scoppiata una rissa rusticana nell'osteria della Frasca, a Santo Stefano in Aspromonte per una partita di nocciole: da un lato Musolino e Antonio Falastò, dall'altro i fratelli Vincenzo e Stefano Zoccoli, oltre un loro compagno.
Una rissa come tante: ma, il giorno dopo, qualcuno spara a Vincenzo Zoccoli, in una stalla, (dove viene trovato il berretto di Musolino), che viene mancato per un soffio, ma rimane ferito.
Intervengono i carabinieri che arrestano il Falastò ed un tale Nicola Travia. Bussano alla casa di Musolino.
Non lo trovano,poichè è scappato. Di li a sei mesi, dietro indicazione della guardia municipale Alessio Chirico, Musolino è arrestato, tradotto a Reggio Calabria e processato per tentato omicidio.

Sempre proclamatosi innocente, giura vendetta in caso di evasione.

Ad Acqualagna in provincia di Urbino però, viene per caso catturato da due carabinieri ignari della sua identità, che riescono a raggiungerlo perché è inciampato in un fil di ferro, i loro nomi erano: appuntato Amerigo Feliziani da Baschi ed Antonio La Serra da San Ferdinando di Puglia, comandati dal brigadiere Antonio Mattei (padre di Enrico Mattei). Musolino stava percorrendo una viottolo di campagna nella località di Farneto, nelle vicinanze di Acqualagna, alla vista dei due carabinieri, che si trovavano nella zona alla ricerca di alcuni banditi del luogo, improvvisamente cominciò a correre pensando che cercassero lui. Inciampando però su un filo di ferro di un filare di viti, cadde' e fu fermato.

Divenne famosa la frase:"Chiddu chi non potti n'esercitu, potti nu filu" (Quello in cui ha fallito un esercito, è riuscito un filo).

Il 17-18 ottobre del 1901 i giornali resero pubblico l'evento. Venne interrogato e il 24 ottobre trasferito nel carcere di Catanzaro su di un treno speciale, sotto la scorta di Alessandro Doria, Ispettore Generale delle Carceri Italiane.[4]

Per la sua cattura si stima che il governo spese un milione di lire, come viene riportato sul giornale.

Solo nel 1933 un certo Giuseppe Travia, che era emigrato in America dopo l'evento iniziale di Santo Stefano, confessa di essere stato lui a sparare a Vincenzo Zoccali discolpando così Musolino del primo delitto.

Resta in carcere fino al 1946, quando gli verrà riconosciuta l'infermità mentale, e poi portato al manicomio di Reggio Calabria, dove muore dieci anni dopo alle 10:30 del 22 Gennaio. Dopo avere attentato, con un rudimentale coltello, alla vita di un infermiere.

Omicidi e tentati omicidi

* Angeloni - ferito
* Alessio Chirico (guardia comunale) - omicidio
* Stefano Crea - tentato omicidio
* Carmine D'Agostino - omicidio
* Francesco Fava (Sindaco di Bovalino) - tentato omicidio
* Francesco Marte - Omicidio
* Francesca Morabito - omicidio
* Gregorio Musolino - tentato omicidio
* Antonio Princi - omicidio
* Carabiniere Pietro Ritrovato - omicidio
* Stefano Romeo - tentato omicidio
* Pasquale Saraceno - omicidio
* Francesca Sigari (amante di Stefano Crea) - omicidio per errore
* Stefano Zirilli (Consigliere comunale di Bovalino) - tentato omicidio
* Stefano Zoccali (fratello di Vincenzo) - omicidio
* Vincenzo Zoccali - tentato omicidio
Chiavone
#4
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Mighty Blow
Nato a Sora nel rione di San Silvestro, dove fu battezzato, da una famiglia di contadini e crebbe in campagna in località la Selva. Divenuto adulto divenne guardiaboschi.

All’età di circa 35 anni, entrò in azione nel periodo in cui il generale Enrico Cialdini era impegnato col suo esercito a combattere e reprimere il fenomeno del brigantaggio. Chiavone poteva contare sull’appoggio e sulla protezione della popolazione locale e di buona parte del clero: lo stesso vescovo, monsignor Giuseppe Montieri, dichiarava il proprio disprezzo per i liberali e i sabaudisti, tollerando ampiamente l’azione dei briganti

Quando il re, assediato a Gaeta, si arrese fuggendo a Roma, sotto la protezione del papa, Chiavone si trasferì nella zona di Castro dove poteva rimanere in contatto con Francesco II, detronizzato, e poteva riparare nello Stato Pontificio nel caso si trovasse in difficoltà con l’esercito sabaudo. Quello fu il periodo in cui le sue azioni si fecero più intense e violente: ai primi di maggio del 1861 invase e saccheggiò il paese di Monticelli, uccidendo il sindaco e distruggendo i ritratti di Vittorio Emanuele e di Garibaldi. All’intervento dell’esercito sabaudo, la sua banda di briganti non poté evitare lo scontro, ma Chiavone riuscì a fuggire la battaglia riparando oltre confine. Come segno di riconoscenza, Francesco II gli concesse il titolo di "Comandante in capo di tutte le truppe del Re delle Due Sicilie" e il diritto di fregiarsi del sigillo dei Borbone.

Era diventato così arrogante da preannunciare ai sindaci il proprio arrivo, e lo faceva con lettere su carta intestata, piene di errori grammaticali e ortografici.

Ma, nell’inverno del 1861 si trovò in seria difficoltà per mancanza di rifornimenti di cibo e di denaro, e molti dei briganti della sua banda lo abbandonarono. Chiavone si trasferì nuovamente nei pressi di Sora dove poteva contare sull’omertà della popolazione e sul sostegno dei monaci dell’Abbazia di Trisulti che offrivano pasti caldi e coperte.

Verso la fine di giugno venne catturato e processato sommariamente da Tristany, che nel frattempo aveva messo in piedi una propria banda di briganti.

Quel tribunale improvvisato emise la condanna a morte che fu eseguita il 28 giugno del 1862.

 
Gnicche
#5
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Per quanto nato da una famiglia umile ma onesta, Federigo Bobini ebbe fin dall'adolescenza un carattere assai difficile.
Ciò fu del resto caratteristica anche dei fratelli, in particolare Giovanni, condannato a 8 anni di carcere per omicidio, e Donato, che lavorava come "protettore" in un bordello di Arezzo. Per quanto lavorasse saltuariamente come imbianchino e muratore, il Bobini era assai più propenso ai soldi facili e alla violenza.
Gnicche (nomignolo attribuitogli dagli abitanti di Santa Croce, la zona di Arezzo in cui risiedeva) era noto ai carabinieri quando aveva solo 19 anni: a quell'età il futuro bandito aveva già organizzato una piccola banda di balordi suoi coetanei.

Nella notte del 6 novembre 1869 commise il primo omicidio. Gnicche si era recato dalla fidanzata Francesca Borghesi, in località Santa Firmina (a pochi chilometri da Arezzo), quando i carabinieri, che lo avevano intercettato e seguito, circondarono la casa. Alla vista delle forze dell'ordine, Gnicche salì sul tetto e, imbracciata la doppietta (che portava sempre con sé, unitamente a una rivoltella), sparò contro di essi, colpendo mortalmente il carabiniere Luigi Gnudi, di appena 24 anni. Quindi sparì nella notte, ma di lui si sentì tristemente parlare pochi giorni dopo. Il 20 novembre, infatti, assalì a scopo di rapina (insieme ad un altro brigante della zona, Claudio Nozzi detto "Baffino") un umile bracciante di nome Federigo Bonini presso il "Ponte del Barcone", nelle campagne tra Cortona e Bettolle (SI). Resosi conto che la vittima non aveva niente in tasca, la costrinse a restare con lui sotto il ponte in attesa di un altro malcapitato. La nuova vittima, Domenico Zolfanelli, venne aggredita con inaudita violenza, colpita duramente al volto e derubata di 70 lire e di un fucile.
Ormai il bandito si era fatto prendere la mano, divenendo estremamente violento e prepotente. Il 17 agosto 1870 per un banale diverbio con un passante in località Ponte alla Chiassa, Gnicche sparò al malcapitato, che rimase gravemente ferito al volto e alla schiena.
I carabinieri continuarono nelle loro ricerche, finché la sera del 3 ottobre 1870 lo scovarono mentre dormiva in una capanna nelle campagne presso Arezzo. Arrestato e processato, annunciò nella prima udienza di esser pronto a collaborare con la giustizia, rivelando i nomi dei complici.
Dopo una furiosa colluttazione i carabinieri riuscirono ad ammanettarlo, avviandosi verso la caserma del vicino centro di Badia al Pino. Durante il tragitto tuttavia Gnicche riuscì a divincolarsi, tentando una disperata fuga: fu allora che uno dei carabinieri imbracciò la carabina, fece fuoco e colpì all'altezza dei reni il brigante. La ferita fu letale e Gnicche, 26enne, morì poco dopo essere stato trasportato alla caserma dei carabinieri.

Dopo la morte, la leggenda di Gnicche iniziò ad aleggiare per tutta la Valdichiana e l'Aretino. Numerosi poeti e cantori locali ne hanno narrato le gesta, spesso adattandole a quella voce che lo voleva quale un eroe difensore dei deboli, che, un po' come Robin Hood, "rubava ai ricchi per dare ai poveri".
Di certo il suo carattere prepotente e ribelle ha coniato alcune espressioni tutt'oggi comuni nella parlata chianina: «Sei peggio di Gnicche» o «Sei uno Gnicche» sono frasi riferite a persone (spesso bambini) un po' troppo vivaci e chiassose.
Ciardullo
#6
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Antonino Maratea detto Ciardullo agiva tra le montagne di Avellino, a capo di una banda formata di caprai e contadini.

Ciardullo fu sospettato dell'omicidio di Antonio Viviani avvenuto l'8 aprile 1863 a Campagna.

Ciardullo, già catturato il 19 giugno 1859, poi fu arruolato nell'esercito borbonico e mandato in Calabria per resistere a Garibaldi.

Con gli sbandati, tornò in paese, e si arruolò nuovamente, questa volta nell'esercito italiano.

Collocato in congedo, chiese invano un sussidio al Sindaco.
Decise allora di organizzare una compagnia di uomini armati, come avevano fatto altri, e si rintanò sui monti di Senerchia.

Iniziò una serie di estorsioni, rapine, furti, sequestri, sevizie, atrocità.

Era un omiciattolo dagli occhi fermi, barba bionda, anelli alle dita. La sua donna, Rosaria Rotunno, che lo seguiva armata e in abito maschile benché incinta, fu arrestata nel marzo 1864.

Il bottino di Ciardullo, al momento dell'arresto, era di 553.000. lire.

Il Tribunale di guerra di Salerno lo condannò alla pena di morte con fucilazione alla schiena con sentenza del 30 novembre 1865, sentenza eseguita in Campagna il 1 Dicembre 1865.
 
u' Zambr
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Antonio Locaso detto il Crapariello (‘u Craparidd) (Abriola, 1841 – Castellaneta, 17 gennaio 1863) fu il più importante brigante italiano operante sul territorio Castellanetano.

Della sua giovinezza si conosce solo che è originario della Lucania. Il soprannome deriva dal fatto che faceva il capraio ed era basso di statura. Il 15 gennaio 1863, ad appena 22, fu catturato nelle campagne di Castellaneta dalla cavalleria della Guardia Nazionale che nello stesso paese contava ben due due compagnie comandate da Mauro Perrone. Al momento della cattura era in compagnia di un altro componente della sua banda un certo Marino Todisco con il quale era dedito alla rapina ed al saccheggio del territorio. La cattura fu effettuata grazie alla collaborazione di un suo amico che, da informatore delle forze dell'ordine, gli regalò una bottiglia di vino drogato che bevve insieme al Todisco. Mentre i due riposavano, per effetto delle droghe contenute nel vino, giunse la cavalleria. Il Todisco riuscì a scappare (forse perché aveva bevuto meno), mentre lui cadde da cavallo e si nascose nella macchia. La sfortuna vuole che fu individuato a causa del latrare di un cagnolino che si trovava nei pressi del cespuglio.

Antoio Locaso fu catturato, condotto in città e custodito nel Seminario. Il 17 gennaio, alla presenza del popolo, fu fucilato presso il monumento del Calvario ed il suo corpo esposto per due giorni in piazza Vittorio Emanuele.
 
Caprariello
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Nicola Napolitano (Nola, 28 febbraio 1838- 10 settembre 1863) detto il Caprariello, perché pastore di capre per mestiere, fu uno dei protagonisti del brigantaggio italiano, attivo nell’Avellinese.

Nato a Nola il 28 febbraio 1838 dai contadini Sabato e Carmela di Napoli, e privo d'istruzione, nel 1861 fu chiamato alla leva militare istituita dal neonato Regno d'Italia e sconosciuta sotto il regime borbonico. Renitente, fu arrestato e arruolato a forza, ma disertò quasi immediatamente, unendosi alla formazione brigantesca guidata dai fratelli nolani La Gala, presso la quale assunse un ruolo preminente, segnalandosi per energia e ferocia, sino al punto, nel corso del 1862, di costituire e guidare una sua propria banda. Arrestato a seguito di un conflitto a fuoco ai primi di settembre del 1863, fu fucilato nella nativa Nola il 10 dello stesso mese.
Turri Turri
#10
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Razor Sharp Claws
Agiva nella zona di Mugnano alle porte di Avellino.

Era stato condannato per un omicidio a scopo di furto, aveva passato una decina di anni in carcere, ed era stato liberato nel gennaio 1859.

Era ancora sottoposto a sorveglianza speciale con obbligo di presentarsi ogni giorno al capo-urbano di Mugnano; ma Turri-Turri profittò dei disordini successivi all'impresa garibaldina, e si dette alla macchia con altri mugnanesi. Nello stesso anno e nella stessa zona, Cipriano La Gala era nel Nolano e Menfra nel Montefortese.

Turri-Turri, che dai Borbone non aveva avuto che processo e carcere, improvvisatosi "campione borbonico", andava in giro impugnando una bandiera borbonica.

Riuscì a formare una banda di circa trecento briganti.

In un giorno dell'agosto 1862 fermò una carrozza proveniente da Avellino, e chiese ai quattro viaggiatori atterriti: viva chi? Uno di essi rispose "viva Vittorio Emanuele". Turri-Turri spianò la carabina e lo fulminò. Gli altri tre, vista la fine del loro compagno di viaggio, si affrettarono a rispondere "viva Francesco". Le milizie mandamentali di Baiano ed una compagnia di bersaglieri si misero alla caccia dei briganti su per le montagne mugnanesi. Il generale Pinelli che comandava la divisione di Nola ed era rigido esecutore degli ordini di Cialdini, quando perlustrava la via delle Puglie, se incontrava una persona che non sapesse li per lì dar ragione della sua presenza, non esitava a comandare ai suoi soldati: "Fusilè, fusilè".
La popolazione era tra i briganti e la legge marziale. Un brigante della banda di Turri-Turri, incontrata una ragazza mugnanese che era stata fidanzata e lo aveva lasciato, non esitò a puntare contro di lei il suo schioppo e la stese a terra.

Turri-Turri aveva un macabro capriccio, bruciare i baffi o la barba delle persone, perché barba e pizzo potevano significare simpatia per Vittorio Emanuele.

Altra sua impresa:
s'imbatté nella banda musicale di Avella; i bandisti avevano un'uniforme con berretto rosso; il rosso garibaldino faceva infuriare Turri-Turri, che sequestrò berretti e strumenti.

Poi la schiera si assottigliò ma il capo rapì Filomena Di Pietro, una bella massarotta mugnanese, la portò in montagna e la possedette, sotto gli occhi dei suoi fratelli, Raffaele e Filomeno della Mammana. La donna ed i suoi fratelli per vendicare l'oltraggio uccisero Turri-Turri; gli segarono la testa mentre dormiva.

Era la fine di dicembre 1862. I superstiti furono catturati e passati per le armi un mese dopo, il 31gennaio 1863.
 
Donatelli
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Carmine Donatelli Crocco nasce in una capanna di foglie e fango il 5 di giugno dell'anno 1830, in quello che era una paese di 10000 abitanti all'epoca: Rionero in Vulture.
secondogenito di cinque figli ha la vita segnata all'età di sei anni, quando con il fratello Donato uccise un cane reo di aver mangiato un coniglio di famiglia. Il cane apparteneva ad un signorotto del paese che sapendo dell'accaduto picchiò Donato, la disgrazia volle che la madre incinta di cinque mesi si contrappose tra il signorotto e suo figlio subendo un forte calcio al ventre che la costrinse a letto per ben tre anni. Successivmente il signorotto, tale don Vincenzo, venne colto da alcuni colpi d'arma da fuoco senza subire nessun danno fisico, incolpato di tutto fu il padre di Carmine che venne imprigionato.

Crocco ha 15 anni, quando salva dalle acque dell'Ofanto un nobile del posto che gli regala 50 scudi e gli permette di ritornare nella sua amata Rionero dopo ben 5 anni di soggiorno come pastore in Puglia. Tornato a Rionero il giovane Carmine inizia a lavorare come contadino presso la masseria di un certo Lo Vaglio e qua conosce il figlio di colui che picchiò sua madre. Costui offrì al giovane Carmine la possibilità di non prestare il servizio militare. Disgrazia volle che il giovane venne assasinato e quindi colui che sarebbe diventato Crocco si ritrovò nell'esercito di Ferdinando II, nel primo reggimento d'artiglieria.

Siamo nel 1851. Con la sorella a casa a lavorare per tante ore al giorno, Crocco riceve notizie della sua Rionero solo con le lettere della stessa sorella divenuta ormai maggiorenne. In una di questa la sorella parla di un tale don Peppino e di una certa Rosa che cercano di importunare l'animo candido della sorella. Alla prima occasione utile Carmine torna a Rionero e, per vendicare quello che aveva subito la sua unica amatissima sorella Rosina, uccide con una pugnalata don Peppino. Dapprima rifugiatosi nella boscaglia, viene catturato e condannato. Da allora cominciò la sua vita da brigante.
Crocco
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Big Hand
Nel 1852 disertò e costituì con Ninco Nanco e Vincenzo Mastronardi una banda armata, che si insediò nei boschi di Monticchio e visse di rapine e furti fino all'arresto, avvenuto il 13 ottobre 1855. Fu condannato a 19 anni di carcere da scontare nel bagno penale di Brindisi, da cui evase nella notte tra il 13 e 14 dicembre 1859 tornando nei boschi di Monticchio.

Si unì quindi ai moti liberali di Rionero il 17 agosto 1860 sperando di ricevere la grazia. Tuttavia Decio Lordi, vicegovernatore, lo fece condannare per il sequestro di Michele Anastasia, avvenuto prima dei moti risorgimentali agostani. Con l'aiuto di alcuni amici, Crocco tentò la fuga verso Corfù ma venne sorpreso a Cerignola e nuovamente incarcerato. Evase nella notte tra il 3 e il 4 febbraio 1861 con l'aiuto del movimento legittimista rionerese, movimento a cui subitò aderì, con l'incarico di reclutare soldati rimasti fedeli ai Borbone.

Riuscì a riunire 400 o 550 briganti autonominandosi “generale del Re”. Il 7 aprile occupò il castello di Lagopesole e il giorno successivo Ripacandida, deve sconfisse la guarnigione locale della Guardia Nazionale. Crocco dichiarò subito decaduta l'autorità sabauda e ordinò che fossero esposti nuovamente gli stemmi e i fregi di Ferdinando II. Il 10 aprile i briganti entrarono a Venosa e la saccheggiarono, uccidendo tutti quelli che si opponevano alla loro autorità (tra cui il medico Francesco Nitti, nonno di Francesco Saverio Nitti). Anche qui fu istituita una giunta provvisoria.

Fu poi la volta di Lavello ed infine di Melfi (15 aprile), dove era in corso una rivolta antisabauda e dove Crocco fu accolto trionfalmente. Quegli episodi impressionarono notevolmente il governo italiano che decise di inviare nuove truppe sotto il comando del generale Della Chiesa. Dopo numerosi scontri cadde anche la città natale del brigante. Insorgono anche molti paesi del materano e del lagonegrese.

Solo due giorni dopo però l'esercito di Crocco fu costretto a ritirarsi verso l'Ofanto a causa dei massicci rinforzi alla Guardia Nazionale inviati dal governo regio. Nei giorno successivi tutti i paesi insorti e occupati furono riconquistati, ristabilendo l'autorità sabauda. Crocco e la sua banda vissero nei boschi sperando in un provvedimento di clemenza. Dopo la disfatta, avvenuta sull'Ofanto il 25 luglio, fuggì nello Stato Pontificio, che aveva sostenuto la causa legittimista. Fu invece invece catturato a Veroli e incarcerato a Roma. Dopo la presa di Roma fu rilasciato alle autorità italiane e a Potenza fu condannato a morte l'11 settembre 1872. La pena fu commutata nei lavori forzati a vita, da svolgersi nel carcere di Portoferraio, dove morì il 18 giugno 1905.
 
Gaetano Manzo
#13
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